A partire dall’esperienza di No Promised Land – Accoglienza, spazio fisico e condizione umana, mostra fotografica e reportage sulla vita nei centri di accoglienza veneti realizzato da Andrea Ferro e recentemente ospitato e promosso da Acea Odv e Rete Migrazioni e Lavoro, il tema dell’abitare per gli stranieri, richiedenti asilo e profughi internazionali si è imposto ai nostri occhi in maniera pervasiva. Ma l’abitare è oggi più che mai una questione prioritaria tanto per i nuovi arrivati in Italia, spaesati e dispersi in un sistema dell’accoglienza sempre più frammentario e distrutto dalle recenti operazioni politiche, quanto, a Milano e in tutte le grandi città del nostro paese, per giovani, studenti, poveri, disoccupati, residenti di lunga data e in generale per una buona fetta della cittadinanza intera. Le nostre città, sull’onda di processi di “gentrificazione” e “riqualificazione” dal sapore europeo, vivono oggi una crisi abitativa significativa: prezzi degli affitti in crescita costante a fronte di salari in diminuzione, riduzione degli spazi, luoghi sfitti in stato di abbandono, speculazione edilizia, mercato senza regolamentazioni, difficoltà di contrarre un mutuo in assenza di stabili forme contrattuali e posti di lavoro solidi per i giovani.
Segni tra il cemento, riflessioni sull’abitare è un piccolo spazio compresso di riflessioni, che nel nostro caso possiedono un oggetto ben specifico e delineato: l’abitare. Non articoli di giornale ma brevi scritti con l’obbiettivo di cogliere una dimensione il più possibile ampia delle molteplici facce della questione abitativa. Questa piccola rassegna cerca di far riemergere ciò che, all’interno della cultura Occidentale e dei suoi modelli di sviluppo, abbiamo lasciato da parte nel pensare l’abitare. Puntare un faro sul “dato per scontato”, su ciò che sembra troppo ovvio per essere importante e che pure ha contribuito a ciò che oggi possiamo osservare nelle nostre città, leggere sulle pagine dei giornali, ascoltare nei salotti televisivi o nei telegiornali.
E allora è qui che torniamo a porci le più scontate delle domande: cosa significa abitare? Che cos’è una casa? Cosa la rende così importante per noi? Cosa abbiamo guadagnato e cosa al contrario abbiamo dimenticato rispetto all’abitare?
La Grammatica dell’abitare: Soggetto, Verbo, Complemento
di Giacomo Rogora
“What kind of house is it this,
where I came to roam,
it’s not a house said Frankie Lee,
it’s not a house, it’s a home”
Bob Dylan – Ballad of Frankie Lee and Judas Priest
In Freedom to build, dweller control of the housing process[1], John F.C. Turner sostiene la possibilità di attribuire al concetto di housing un duplice significato. Ad un primo sguardo il termine housing, così come scopriamo consultando il Merriam – Webster Dictionary, ci rimanda ad un sostantivo. «Shelter; lodging; dwelling provided for people» recitano le prime voci del dizionario.
Esiste quindi una dimensione della “house” legata prevalentemente, ed intuitivamente, alla sua funzione di oggetto, di commodity, di struttura e spazio fisico costruito. Un prodotto materiale – di diversi materiali – la cui funzione è racchiusa unicamente nella sua dimensione strutturale e architettonica.
Il secondo significato che Turner attribuisce al termine ne modifica radicalmente la prospettiva: housing is a verb afferma l’autore e allora l’housing muta il suo senso. Trasformando in verbo ciò che era oggetto non parliamo più di un semplice aggregato architettonico ma piuttosto di un “fare casa” ‚ una azione transitiva e intrinsecamente positiva, nel senso che è in grado di produrre, di generare, di apporre un segno. Casa è ben oltre l’oggetto e gli spazi tracciati dalla prospettiva ortogonale. Il fare la propria casa prescinde le pareti, gli arredi e la muta materia perché la casa è un saper fare, e l’abitare è dunque un’abilità pratica e significante in grado di dare voce agli spazi, agli oggetti e alle cose.
«Abitare è una facoltà umana. E’, cioè, una abilità acquisita, costruita su di una predisposizione biologica, (l’essere fisicamente presenti in un luogo) ma elaborata culturalmente, quindi condivisa con la società[2]» scrive l’antropologo e architetto Franco La Cecla intendendo quindi l’abitare come una pratica attiva e culturalmente orientata dell’essere umano che va ben oltre l’oggetto casa infondendola di nuovi significati e abbattendo la sua mera valorizzazione in termini di mercato. È quindi il senso che si dà alla propria casa (dove il “propria” prescinde la proprietà) insieme alle relazioni da essa generate il cardine di qualsiasi discorso sull’abitare. Ecco perché l’abitare necessita di essere ripensato nella totalità della sua grammatica: una frase completa il cui senso è tale e compiuto solo nel legame tra il soggetto (l’individuo), il verbo (l’abitare) e il complemento (lo spazio vivo).
Guardando alla casa come oggetto e dandone per scontato il suo rapporto con l’abitare, dimentichiamo le pratiche che la rendono tale. Questo ci porta a considerare come il diritto alla casa non possa essere scisso dal più ampio orizzonte di un “diritto all’abitare” inteso come pratica di produzione identitaria, creazione culturale e affermazione di un esserci nella società che è anche un esserci nel mondo. Non per niente spesso ci riferiamo a coloro che una casa non la hanno attraverso un processo di sottrazione. I senza tetto o senza fissa dimora sono considerati “invisibili”, un paradosso se consideriamo che proprio perché definiti dall’assenza di una casa essi sono all’opposto i “più visibili” essendo costretti a praticare ed adattare il loro abitare allo spazio pubblico. Assenza di una casa appunto, ma mai assenza dell’abitare che certo in casi di estrema precarietà e insicurezza deve essere quotidianamente rinegoziato, ma non rinuncia ad esistere, anche nell’estrema povertà, anche in assenza del suo complemento oggetto.
Se la casa va ben al di là dei materiali di cui è composta e degli spazi che la articolano allora essa è un luogo profondo e significativo. Non solo un posto dove stare, dove ripararsi bensì «un luogo dove esserci» come scrive Andrea Staid[3]. E l’esserci è frutto di un difficoltoso e quotidiano confronto tra l’esigenza intima della costruzione identitaria individuale e la continua necessità dall’aprirsi a un noi. Senza la possibilità di ribadire il proprio esserci si realizza ciò che Ernesto De Martino chiamava «crisi della presenza», ovvero quel momento drammatico in cui questa nostra capacità di affermazione vacilla, in cui crolla il mondo di valori su cui abbiamo fino a quel momento vissuto. La presenza è la capacità di esserci e questa si realizza attraverso la cultura, tramite cui addomestichiamo il mondo e gli diamo un senso, per poter poi agire in esso.
“Lo smarrirsi di questa potenza, il venir meno della stessa interiore possibilità di esercitarla, costituisce un rischio radicale che rispetto alla presenza impegnata a resistere senza successo all’attentato si configura come esperienza di “essere-agito-da”, dove l’“essere-agito” coinvolge la totalità delle personalità e delle potenze operative che la fondano e la mantengono” (de Martino 1959, p. 73).
(Ernesto de Martino 1959, p. 73).
Prima ancora del vivere uno spazio l’abitare è quindi la capacità insostituibile di dirci presenti nel mondo. Ripensare l’abitare da questo punto di vista ci pone davanti a una sfida: il diritto alla casa è un diritto ad esserci, perché per esserci dobbiamo abitare.
Una volta costruita, la casa, va oltre il suo oggetto caricandosi di significati ed esprimendo a sua volta simboli e valori (Aime, 2017). Diventando tempio dell’esserci, luogo intimo necessario per mediare tra l’essenza collettiva del sociale da un lato, e l’ambiente circostante dall’altro, essa crea uno spazio denso di identità espresse attraverso oggetti, pratiche, piccoli rituali e abitudini.
È Ivan Illich a ricordarci infatti come habit e habitat dispongano infatti della medesima radice linguistica. L’ambiente è infatti il prodotto di abitudini, di comportamenti culturali consolidati nel tempo. Di norma i tempi dell’abitare sono lunghi, a volte comprendono l’arco della vita stessa dell’individuo. Altre volte in assenza di qualsiasi prospettiva di certezza è il tempo a soverchiare l’abitare. Nei contesti di emergenza, nei campi dei rifugiati, nelle strutture di accoglienza, nei ripari per i senza tetto, il tempo scorre più in fretta dell’abitare stesso. La sicurezza temporale è certamente un fattore chiave dell’abitare, determina la possibilità di un’architettura di trasformarsi radicalmente divenendo espressione di un’appartenenza che non si limita all’edificio. È in questa trasformazione che la casa diviene il complemento dell’abitare. Il luogo su cui si riversa questa capacità attiva dell’essere umano di produrre ciò che potremmo definire architetture dell’essere.
Se inoltre intendiamo l’abitare come pratica culturale attivamente elaborata e appresa dall’individuo è indispensabile riconoscere da un lato che le case «parlano di noi». L’arredamento, gli oggetti, le suppellettili arricchiscono lo spazio domestico rivelando il carattere e il tipo di esistenza che ognuno di noi conduce. A prescindere dalla dinamica temporale e dalle condizioni di incertezza che minano la stabilità della pratica abitativa, chiunque personalizza la propria casa. Sia essa una villa monofamiliare in un quartiere residenziale della provincia borghese, un piccolo monolocale studentesco dei quartieri universitari delle grandi città, un basso nel cuore di Napoli, una capanna nella steppa masai o una yurta del deserto della Mongolia, una casa è sempre plasmata a misura dal suo abitante anche quando forze esterne ne comprimono, limitano, minano le sue possibilità. Costruire identità attraverso la manipolazione dello spazio, specialmente quello domestico, è parte di ciò che definisce l’essere umano. La casa, le case, diventano attraverso l’abitare vive e complesse metafore della società e l’abitare costituisce un segno trasversale e universalmente diffuso della condizione umana.
Dall’altro lato una casa non termina negli elementi che la popolano, né è unicamente riducibile ad essi. Essa è nucleo essenziale di un insieme di relazioni, ragnatele di legami che si incrociano con l’abitare dell’individuo, nonostante il modello di sviluppo moderno e Occidentale abbia spesso trasformato lo spazio domestico in privato, inaccessibile e decisamente poco permeabile agli impulsi dell’esterno. La casa produce e si fa orbita di innumerevoli relazioni: di vicinato o quartiere, di villaggio o di comunità, di politica o di resistenza, di assistenza, di tecniche e tecnologie, di burocrazia ed amministrazioni. Certe case diventano persino simboli da proteggere nel tempo, terreno di lotte, rivendicazioni o produzione culturale anche oltre l’abitare stesso. Luogo privato e contemporaneamente cardine di relazioni e pratiche sociali, la casa, eccede sempre le sue porte.
Insistere su questo punto ovvero sulla separazione netta tra un’idea di casa come oggetto, e una dimensione generativa della casa, intesa come pratica del “fare casa” , apre a nuove possibilità di riflessione, in cui l’abitare (il quale trova radice nel verbo latino habeo, “l’avere consuetudine con un luogo” , indice di una permanenza del vivere) deve confrontarsi con le molteplici sfide della contemporaneità. Le innumerevoli dimensioni di crisi – economica, sociale, esistenziale – che caratterizzano la società contemporanea, sono oggi in grado di mettere in scacco questa concezione permanente dell’abitare e del suo “oggetto casa”. In questo senso, la crisi può determinare una fase di stallo dello sviluppo, facendone emergere «le contraddizioni e la sua propensione ad arrestarsi e a ridefinirsi nelle sue modalità e nel suo significato sociale, culturale e politico» (Bettin Lattes 2010, p. 5). La crisi abitativa pone infatti in relazione differenti crisi dell’abitare, alcune di matrice socio-economica certamente dovute all’estensione e diffusione di pratiche neoliberiste della gestione urbana, altre più contestuali che si intrecciano ad esempio con la questione migrante nell’abitare le strutture di accoglienza (luoghi spesso mai pensati per essere abitati) o con le storie di occupazione abitativa delle nostre città. Le differenti ragnatele di crisi si connettono trasversalmente proprio attraverso il cardine dell’abitare.
Intendere quindi il fare casa come pratica aperta e non all’opposto come un dato di fatto e una azione “scontata”, riapre questa discussione e ci conduce a ripensare l’abitare come punto di partenza e non come conseguenza della proprietà di un oggetto casa. Anche dove non esiste questa proprietà, dove le politiche di gentrificazione portano allo schizzare degli affitti e alle azioni scellerate degli speculatori immobiliari; dove la casa è uno spazio trovato di fortuna e sempre in bilico tra illegalità e inabitabilità; dove è un luogo imposto dalla propria condizione socio-economica o dall’assenza di documenti, il diritto all’abitare trova i suoi spazi, non rinuncia a manifestarsi, poiché abitare è esserci e l’esserci significa darsi una presenza nel mondo. Quella tra casa, abitare, essere, pratiche culturali e posizionamento sociale è una connessione imprescindibile e necessaria persino al superamento di retoriche e narrative violente e/o aggressive su chi una casa non la ha, la occupa, o la vive e pratica in modalità diverse dalle nostre. Ecco quindi il primo dei segni tra il cemento che vogliamo lasciare.Giacomo Rogora 25/02/2020
[1] Freedom to build: Dweller control of the Housing Process, John F. C. Turner & Robert Fichter, The Macmillan Company, 1972
[2] Perdersi, l’uomo senza ambiente, Franco La Cecla, Editori Laterza, 2011
[3] Abitare illegale, etnografia del vivere ai margini in Occidente, A. Staid, Milieu edizioni, 2017